Testimoni
FRATEL LUIGI BORDINO, UN INFERMIERE PER AMICO
disegno a china di Ettore Lazzarotto
Le parole non giovano alla testimonianza di fratel Luigi. Egli testimoniava con la semplice sua presenza. Bastava vederlo: competente, puntuale, sempre calmo, senz'ombra di sussiego, chino e partecipe sulle difficoltà del malato, che si onorava di servire e che non avrebbe abbandonato per tutto l'oro del mondo. Dopo le angosciose notti degli operati, il suo arrivo in corsia era vissuto «come il sorgere del sole». Quando i preanestetici non erano ancora stati inventati, e coloro che dovevano essere operati si avviavano a piedi verso la sala operatoria, erano facilmente comprensibili i momenti di panico. Se però vi era fratel Luigi, i malati s'incamminavano sereni anche verso la sala operatoria. Qualcuno gli diceva: «Stammi vicino», E Luigi lo prendeva per mano, offrendogli «il massimo di sicurezza possibile». La lucetta accesa del suo sgabuzzino infermicristico, mentre garantiva la sua presenza in corsia, «assicurava la tranquillità degli operati e del personale notturno». Sovente egli chiese al proprio superiore il permesso di assistere il moribondo che presumibilmente non avrebbe passato la notte, e che rimaneva restio alla preparazione cristiana: «Vorrei essergli vicino». In caso di decesso del paziente i chirurghi chiamavano fratel Luigi, «umile ambasciatore», presso i familiari affranti ed egli «si piegava al volere di Dio». Nelle notti gelide della Siberia, all'agghiaccio, fratel Luigi (allora Andrea Bordino) aveva sperimentato personalmente la fortuna di avere vicino un fratello così come per tutta la vita egli portò negli occhi e nel cuore l'immagine di migliaia di commilitoni morenti, feriti o assiderati, abbandonati nella neve. La germogliò la sua vocazione al servizio della carità. Quello di fratel Luigi era un silenzio saturo di fede, La sua missione al servizio del sofferente incarnava lo spirito delle Beatitudini. Egli testimoniava il paradosso evangelico. Non spiegava la sofferenza, contro cui lottava. La pregava, sforzandosi di adorare il disegno di Dio. Nella sua esperienza la sofferenza e la morte umana conservavano tutta la loro naturale ripugnanza, tuttavia queste, senza perdere la sostanza del loro mistero s'illuminavano, diventavano importanti e preziose sulla filigrana del disegno divino. Il suo rapporto di servizio all'ammalato non era un modo di fare, bensi una maniera d'essere. Distaccato da ogni interesse umano, egli «tecnico ad alto livello» si rivelava uomo armoniosamente realizzato a totale disposizione del sofferente. Un grand' invalido, curato da fratel Luigi, ha scritto: «Se avessi avuto un padre, l'avrei voluto come fratel Luigi». L'intera sui persona, corpo ed anima, si apriva alle esigenze del malato. La sua disponibilità diveniva totale, specialmente quand'era rivolta alle creature in stato d'abbandono. Buoni figli e barboni s'impossessavano di lui: «L'è mé fratel Luigi» (è mio fratel Luigi). I poveri lo adoperavano con la stessa naturalezza con cui noi usiamo le tasche. La specializzazione tecnica, per sua natura, incentra l'attenzione sul pezzo ammalato. Il degente, allora diventa facilmente «la cistifellea o la testa del femore o l'appendice o l'ernia, ecc.». Senza venir meno a queste attenzioni, fratel Luigi guardava sempre al malato come ad un cittadino, un fratello, un figlio di Dio. Egli rivolgeva le sue premure («cure d'amore» le chiamava una caposala) alla globalità delle esigenze della persona che serviva. Egli viveva la Caritas, la Pietas, la Misericordia. Incarnava l'amore di Dio Padre provvidente per l'uomo, che nel servizio prendeva il volto di fratel Luigi, diventava il suo cuore, le sue braccia. 0 forse Luigi amava con il cuore di Dio? Lasciamo queste disquisizioni agli specialisti. Certo Gesù è per eccellenza l'incarnazione ineffabile dell'Amore di Dio Padre provvidente in favore dell'umanità, così è certo che Luigi ispirava alle profondità del Vangelo la vocazione e il proprio come servizio. Prima che infermiere egli era consacrato. Uomo di preghiera, adoratore instancabile, era un vero contemplativo. Ciò che aveva fatto proprio nella meditazione, in silenzio, lo donava ai pover" che serviva. La sua giornata s'apriva ben prima dell'alba e si chiudeva a tarda notte. Trascorreva, immobile, in chiesa, almeno quattro ore. Dieci-quindici ore in corsia o in sala operatoria, per venticinque ininterrotti. Fratel Luigi pregava anche in servizio, quando medicava, in sala operatoria o in corsia. Pregava in ricreazione, durante il gioco di palla a volo (...). II suo apostolato era irresistibile. Il dott. Chiaffredo Bussi richiama la testimonianza del Servo di Dio con le seguenti parole: «Le mille prediche che posso aver sentito nella mia vita, aminesso che siano solo mille e noli molte di più (...), parlo come medico e come uomo, non hanno segnato il mio comportamento; nessuno più di fratel Luigi ha influito nella mia vita anche se non mi ha mai fatto una predica, mai! Per carità». Tra i poveri e i malati che assisteva, egli usava particolare attenzione alle famiglie disastrate, ai sacerdoti o ai frati in difficoltà, che in quegli anni erano considerati scomunicati a tutti gli effetti. I rari richiami spirituali di fratel Luigi, erano indiretti: - Vado perché faccio tardi per la preghiera.- Devo ancora pregare Vespro.- Appena torno da pregare, vengo da te. - Preghiamo durante la Messa. - Prega un po', che non li fa male. Un pezzo di Paradiso paga tutto. Ammalato egli stesso, fratel Luigi ha confermato la trasparenza della propria concreta maniera di vivere la fede, anche nella sofferenza. Scoperta la propria malattia, ch'egli conosceva senza remissione, al medico che gli proponeva il ricovero alle Molinette, disse: «Facciamo quello che c'è da fare, prima di tutto la volontà di Dio». E in altre circostanze aggiunse: - Se è volontà di Dio che io guarisca, ben volentieri, ma io preferisco lasciare ogni cosa nelle mani della Divina Provvidenza. - Sia fatta e benedetta la Santa Volontà di Dio. - Preghi anche Lei, perché possa fare la volontà di Dio. - Deo gratias! Sempre! Non è poi tanto quello che soffro. Ce ne sta ancora. Pensi dottore, a quelli che stanno peggio di me. La sua vita si consumava distrutta da sofferenze indicibili. Egli s'adoperava per confortare anche i propri familiari: «Èı meglio che sia toccato a me. Voi avete figli a cui badare... Quel che importa è fare quel che Dio vuole. Ora ho più tempo per pregare». Gravemente infermo, il I5 agosto I976, scriveva ad un suo ex assistito, affetto da cancrena ad un piede: « Caro Bogliacino tu sai che [per] chi ha fede, qualunque cosa, qualunque evento che tocca solo la parte materiale, ma non intacca le cose che riguardano l'anima, non abbattono, non preoccupano, non rendono triste l'animo, anzi vorrei dire, e si può dire, l'opposto». Il 17 aprile 1977, affermava: «Non chiedo al Signore né di continuare a vivere né di fare in fretta a morire... A volte mi è venuta la tentazione di dire ai medici e alle suore: "Basta con certe medicine e certe trasfusioni costosissime che mi fanno solo soffrire", ma poi non voglio aver rimorsi! Voglio fare con gioia tutta la volontà del Signore... Sento che le forze mi sfuggono: sia benedetta la volontà di Dio». Fratel Luigi rimase pienamente umano anche durante la malattia. Egli amava la montagna: «Speravo di poter ancora fare un salto a Grand Puy a prendere un po' d'aria buona, a godere un po' di solitudine e di tranquillità... La mia presenza avrebbe facilitato la conduzione della colonia... Potessi almeno fare un salto a Pocapaglia. In questi giorni chissà quante rose sono fiorite». La sua morte avvenne per soffocamento, atroce. Tuttavia fratel Luigi non cessò di benedire Dio, sino all'ultimo respiro. Il Servo di Dio, che aveva il gruppo sanguigno universale, era stato donatore di sangue sin dal primo dopoguerra, quando le trasfusioni si praticavano ancora direttamente da persona a persona. Specialmente di notte, capitava sovente di non riuscire a reperire il donatore adatto. Allora fratel Luigi rimboccava la manica della tonaca bianca e diceva: «Non perdiamo tempo, dottore». Con la copertura dei chirurghi, egli organizzò gruppi di donatori di sangue per l'Ospedale Cottolengo, nonché una piccola emoteca, affinché i poveri disponessero puntualmente del sangue per le necessarie trasfusioni. Prima di morire, fratel Luigi predispose il dono delle proprie cornee. L'intervento, uno tra i primi riusciti a Torino, consenti a due non vedenti di riaprire gli occhi alle cose belle della vita. Un gesto di carità che coronò una vita, gia tutta spesa a far del bene ai soff erenti, per amor di Dio. Fratel Luigi è diventato esempio luminoso, perché ha saputo farsi servo di tutti.
Fr. Domenico Carena